Narrativa, poesia e tarocchi secondo Gaia Giovagnoli // Intervista

Gaia Giovagnoli (Rimini, 1992) è una scrittrice e cartomante italiana laureata in Lettere moderne e Antropologia culturale all’Università di Bologna. Per Nottetempo ha scritto, per ora, due romanzi: Cos’hai nel sangue (2022) e Chiedi se vive o se muore (2023); due titoli che mostrano una grande maestria nel mescolare magia e crudo realismo in un universo narrativo psicomagico e unico. Gaia è abilissima anche ad esprimersi in versi: Nel 2018 esordice con Teratophobia (‘round midnight edizioni), dove esplora il linguaggio della paura; con Babajaga (2023), la sua ultima raccolta, edita da Industria&Letteratura, dà voce alla figura della Strega per darle una profonda umanità. Gaia arricchisce ogni suo scritto con la sua capacità di ascoltare segni e simboli, sensibilità che affina anche attraverso la lettura dei tarocchi.

PH: Giulia di Pietro

L’antropologia è un tema ricorrente nei tuoi romanzi, quale pensi sia la lezione di questa materia?


L’antropologia è una disciplina che adoro, perché anche quando si orienta verso delle risposte su un qualche ambito umano non smette di interrogarsi ugualmente sul loro relativismo. Non smette nemmeno mai di interrogare sé stessa, autoanalizzandosi, se è per questo. E non sorprende: proviene da una storia della materia che l’ha legata sin dalla sua nascita al colonialismo. Nel tempo, si è dovuta guardare allo specchio, e quello che ha scoperto di sé è stato spesso mostruoso. Ha offerto il fianco a molte ingiustizie.

Questi errori di valutazione sono duri da dimenticare, e la disciplina ne ha fatto tesoro. L’antropologia si è chiesta col tempo se potesse assurgere allo statuto di scienza, e la risposta è stata: sì e no. È qualcosa di altro. Anche la pretesa di usare un lessico oggettivo per consegnare i risultati dei suoi studi è apparso piano piano impreciso. La sua forma di analisi si basa soprattutto sulla ricerca di campo e sull’osservazione partecipante, un ossimoro. Come si può parlare di oggettività, se l’oggetto di studio è esperienziale, e il soggetto che osserva influenzato da proprio assunti e bias?


C’è nell’antropologia quindi un bellissimo discorso che ha a che fare con la narrazione. Con Clifford Geertz si analizza meglio il rapporto tra antropologia e scrittura. Dalla domanda se l’antropologia può dirsi scienza, ci si chiede cosa cerchi nel mondo (leggi? Regole universali? Differenze incolmabili?), ci si chiede a quale scopo (riportare la realtà per com’è?). Il modo in cui riflette sul mondo, descrivendolo, riportando dunque per iscritto ciò che osserva, è poi un tentativo di creare un ponte verso l’alterità o un mezzo per semplificarla, così da riportare ciò che si è capito al proprio gruppo di appartenenza (e anche qui: perché?)?

Nel 1986 viene pubblicato “Writing Cultures” di Clifford e Marcus, cosa che crea ulteriore dibattito: svela il carattere performativo della scrittura antropologica e il nesso tra poetiche e politiche dell’etnografia. La scrittura antropologica è piena di meccanismi retorici. Decide cosa dire e cosa no; come dirlo – come succede a ogni scrittura che provi a consegnare qualcosa di cangiante come le emozioni o l’esperienza, soprattutto quella altrui. L’antropologia è del tutto imparentata con la letteratura, anche se cerca in una certa misura di nasconderlo.

Alessandro Spina, l’antropologo-personaggio di Cos’hai nel sangue, per dire, è figlio di tutta questa riflessione. Leggiamo il suo diario di campo e troviamo riflessioni molto personali. Nella mia testa c’è un filo rosso che va dalla pubblicazione dei diari di campo di Bronisław Malinowski, con la loro carica di disagio molto umano, a Spina, che parla nei suoi resoconti di Coragrotta e ha paura di quello che vede.

Anche in Chiedi se vive o se muore c’è un bel contributo dell’antropologia, non solo perché viene citato il caso della donna che partorisce riportato anche da Levi Strauss (lei che viene aiutata nel parto dal canto di uno sciamano), o perché si cita Favret Sadaa, antropologa che ha fatto ricerca sulle pratiche magiche e sulle streghe. India stessa usa un approccio agnostico, antropologico, a modo suo, quando usa i tarocchi. Non sa davvero perché funzionino, prova a riportarne il processo, e riaggiusta cosa pensa di volta in volta.

Come ogni personaggio che scrivo vive nell’ambiguità, nella continua ricerca. Dell’antropologia amo questo: la costante spinta alla chiarezza, ma la mancanza di risposte assolute, davvero soddisfacenti.

Ph: web

Personalmente, pensi che quello che abbiamo nel sangue possa influenzarci?


In Come dividere una pesca, Noor Naga in un passaggio parla di un rito usato per togliere una maledizione da qualcuno, e riporta di quando alla cugina del protagonista è stato fatto sputare un pezzo di frutta ingoiato due anni prima. Le maledizioni si nascondono in pezzi antichi di cibo. È una bella metafora, e credo rispecchi bene cosa penso del tema.

A volte le persone trovano comfort in luoghi perturbanti, violenti anche, perché è stato solo nella violenza che hanno avuto contatti con le persone che amavano – le figure di riferimento, e/o i genitori. Spesso le stesse figure di riferimento sono state trattate in un certo modo, e loro stessi non sono stati in grado di trasmettere qualcosa di diverso. È una specie di catena. Si agisce reiterando dei modelli che ci trascendono, senza davvero rendersene conto. E questo sì, ci influenza.

India, per esempio, ama sua madre, ma il contatto più vero, l’attenzione indivisa, l’ha avuta solo quando è stata picchiata da lei. Non si accorge che esiste altro. Leo, semplificando molto, può essere stato parte di quell’onda. Anche la protagonista di Cos’hai nel sangue, Caterina, vive una situazione simile. È maledetta, in un certo senso. Condannata a ripetere un modello, quello materno, senza capire perché. È una riflessione che si lega al concetto di autodeterminazione: le persone si possono davvero dire libere, e fino a che punto? Quando agiamo, lo facciamo davvero per nostra piena volontà, o in una sorta di maledizione che ci fa agire in un modo che è nostro solo fino a un certo punto?  

La cultura ci agisce. Noi la facciamo vivere nella nostra pelle, nei nostri gesti, trasmettendo concetti. Ma non solo: la famiglia, gli individui di una famiglia, possono passare a chi viene dopo dei modelli emotivi. Possono dare in eredità non solo bellezze, ma traumi. Io credo che tutti noi agiamo anche in virtù di una storia che ci precede: è la storia con la lettera maiuscola e la storia con la lettera minuscola. Siamo figli di chi ci precede più di quanto pensiamo. Ma è possibile anche accorgersene, e tentare di agire contro questa tendenza. Provarci.

PH: web

Chi ti ha regalato il primo mazzo di carte?


Le mie prime vere carte non me le hanno regalate. Le ho comprate io a sedici anni, a San Marino, perché mi piacevano le illustrazioni: erano piene di animali dalle tinte pastello, e c’erano boschi e piante. Si tratta dei Tarot of the Magical Forest. Ho studiato molto su quel mazzo e da lì ho iniziato a impratichirmi con le letture – prima le ho fatte ad amici e parenti (e al mio micio), e poi piano piano mi sono aperta anche a persone che non conoscevo. Quello fu un salto nel vuoto che riflettei molto se fare o no. Ma le carte mi hanno sempre dato un senso di sicurezza: è come se ciò che viene detto durante le sedute non mi appartenesse. Come se fosse solo di chi ascolta, e della voce delle carte stesse, che hanno la responsabilità di quanto emerge.

Il mio mazzo da adulta, invece, di fatto mi è sembrato mi stesse chiamando. Fu un’esperienza davvero particolare. Lo vidi per caso esposto in vetrina in un negozietto dell’usato a Bologna (si trattava di magnifici tarocchi storici, di Besançon, pubblicati dal Meneghello). Lì per lì non entrai e non chiesi quanto venivano, nulla, e continuai con la mia giornata come se nulla fosse. La notte stessa però li sognai, e avevo l’ansia che qualcuno me li togliesse, come se già mi appartenessero. Dovevo recuperarli.

Leggo le carte con più costanza da quando avevo più o meno 18 anni: considerato che ho quasi 32 anni ho accumulato un po’ di esperienza, anche se ancora sono in una costante fase di apprendimento.

Ho sentito parlare di tarocchi sin da piccola, perché le donne della mia famiglia spesso andavano a casa di una medium, che utilizzava anche i tarocchi nelle sue consulenze. Non mi hanno mai nascosto la cosa, ma era una di quelle abitudini che era bene comunque non dire troppo in giro. C’era un senso di pericoloso, di proibito. Non so bene cosa poi mi abbia spinto anni dopo ad avvicinarmi alle carte, ma c’entra qualcosa con la sensazione di mistero che provavo allora. Non mi ha più abbandonata.

PH: Giulia Di Pietro

Che cosa ti tira fuori la poesia che il romanzo non riesce a fare?


La narrazione in genere consiste nel creare qualcosa che, altrimenti, non esisterebbe nella realtà. Vale sia per la prosa che per la poesia. La differenza è che, per quanto mi riguarda, il romanzo prova ad accompagnare gli eventi, cercando di restituirli in un modo un po’ più aderente all’esperienza collettiva. Al senso comune (anche quando sfonda la realtà, vi resta comunque in rapporto dialettico). La prosa ha bisogno della spina dorsale di una storia, di una sorta di coerenza interna per orientarsi nel neo-mondo. Anche la lingua si fa più piana, meno fraintendibile. Comunica di più, perché è nel suo totale interesse.

La poesia invece ha accettato che questa spina dorsale della trama non è così importante. Che provare a restituire una realtà solida a ben guardare è una pretesa illusoria, e che non solo la stabilità è qualcosa di sacrificabile, ma che è auspicabile perderla di continuo. La poesia fa mutare i concetti e le parole, e nel farlo crea e scioglie gli eventi nell’esatto istante in cui li enuncia. La lingua è quasi sempre suono e allusione, e ha un potere per me molto particolare, che proviene proprio dal suo ritmo.

La poesia risponde allo stesso principio che sta alla base delle formule magiche, delle filastrocche, delle ninnenanne. In che modo? Incanta con la parola un qualcosa che fa paura, o che si desidera, per far sì che o si realizzi o che si allontani.

Nel “ninna nanna ninna oh/ questo bimbo a chi lo do/ lo darò all’uomo nero/ che lo tenga un anno intero”, con le parole sto prendendo un qualcosa che terrorizza e lo lego a una cadenza prevedibile. Così facendo, gli tolgo la sua portata distruttiva, lo addomestico. Lo esorcizzo.

Favret Sadaa, l’antropologa che ho citato prima, colei che ha fatto ricerca sulle pratiche magiche nel Bocage, dice che l’etnografo che di solito va sul campo parte dall’idea che la parola sia veicolo di informazione, anche quella usata negli scongiuri e nelle preghiere. Ma è un errore di prospettiva. Nella magia la parola è atto, potere, azione. La parola è ciò che crea una conseguenza, strega o de-strega. Ecco, la poesia secondo me davvero risponde più a questa natura che a quella del resoconto.

PH: web

La tua poesia preferita?


Per ora torno sempre su due poesie, che non mi stancano mai.
Anne Sexton, Her Kind, e Giovanni Pascoli, La tovaglia.
Le riporto qua:

HER KIND

I have gone out, a possessed witch,  
haunting the black air, braver at night;  
dreaming evil, I have done my hitch  
over the plain houses, light by light:  
lonely thing, twelve-fingered, out of mind.  
A woman like that is not a woman, quite.  
I have been her kind.
I have found the warm caves in the woods,  
filled them with skillets, carvings, shelves,  
closets, silks, innumerable goods;
fixed the suppers for the worms and the elves:  
whining, rearranging the disaligned.
A woman like that is misunderstood.
I have been her kind.
I have ridden in your cart, driver,
waved my nude arms at villages going by,  
learning the last bright routes, survivor  
where your flames still bite my thigh
and my ribs crack where your wheels wind.  
A woman like that is not ashamed to die.  
I have been her kind.

(Anne Sexton, The Complete Poems of Anne Sexton, Boston: Houghton Mifflin, 1981).


LA TOVAGLIA

Le dicevano: ― Bambina!
che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l’hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch’è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte attorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta.
È già grande la bambina;
la casa regge, e lavora:
fa il bucato e la cucina,
fa tutto al modo d’allora.
Pensa a tutto, ma non pensa
a sparecchiare la mensa.
Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.
Oh! la notte nera nera,
di vento, d’acqua, di neve,
lascia ch’entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.
Dalla sera alla mattina,
cercando cose lontane,
stanno fissi, a fronte china,
su qualche bricia di pane,
e volendo ricordare,
bevono lagrime amare.
Oh! non ricordano i morti,
i cari, i cari suoi morti!
― Pane, sì… pane si chiama,
che noi spezzammo concordi:
ricordate?… È tela, a dama:
ce n’era tanta: ricordi?…
Queste?… Queste sono due,
come le vostre e le tue,
due nostre lagrime amare
cadute nel ricordare! ―

(Giovanni Pascoli. Canti di Castelvecchio, Bologna, Zanichelli, 1907).

PH: Riccardo Frolloni

India, la protagonista del tuo secondo romanzo, vive storie d’amore molto particolari quanto ti sei divertita a crearla?


È stato un bel viaggio, sia nell’amore che nella violenza. Mi ha fatto fare domande sui rapporti umani, su quando alcuni si possano dire sani e quando invece no, mi sono chiesta del BDSM, di cosa succede quando manca il consenso, del sesso come liberazione e del sesso come arma. India ha una voce molto rabbiosa, cruda, e non fa sconti a nessuno (a sé stessa, men che meno). Devo dire che mi è piaciuto accompagnarla nel suo scavo e in quell’atto di lotta costante, mentre cerca di distinguere ciò che è davvero destino e ciò invece è possibile cambiare.


Cosa è – o non è- cambiato dal primo al secondo romanzo?


Cambiato: ho avuto decisamente più libertà nella scrittura. Mi sono sentita meno sotto i riflettori, e quindi un po’ meno “ingessata”, sia nei temi che nello stile. Con un esordio si ha la sensazione di dover dire tutto quello che ti sta davvero a cuore, come si avesse solo quel libro come possibilità di prendere parola, e di doverlo fare facendo vedere che sì, sai maneggiare il mezzo. Io avevo sicuramente dell’ansia da prestazione.

Non è cambiato il fatto che grazie a entrambi i romanzi ho avuto modo di incontrare molte persone, che nelle storie narrate si sono riconosciute per un motivo o per un altro. Ecco, questa è la cosa davvero entusiasmante di tutta l’esperienza di pubblicazione.


Cosa pensi che cambierà nel terzo?


Mi auguro che il terzo romanzo nasca sotto alcune delle stelle dei primi due: nella fase di scrittura spero di conservare quella sensazione di libertà che ho avuto con Chiedi se vive o se muore. Di Cos’hai nel sangue vorrei invece la voglia di dire tutto, e di farlo con cura.

GAIA GIOVAGNOLI
IG: @babagaja_
TAROCCHI

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